Da molti anni un artista con la clownerie nel Dna, Leris Colombaioni, porta allegria ai bambini del Bambin Gesù. Mai pensava che il sogno di portarli dal Santo Padre si potesse realmente avverare. E’ accaduto il 16 giugno scorso.
“I bambini avevano scritto al papa perché facesse visita all’ospedale nel quale sono ricoverati. Ma non è che il papa possa andare da tutti… E scherzando dissi loro che un giorno li avrei portati io dal papa”. La speranza dei clown smuove le montagne e fa avverare i sogni. Così per alcuni dei ricoverati all’ospedale pediatrico romano Bambin Gesù, per le loro famiglie e naturalmente anche per Leris Colombaioni il 16 giugno scorso quel sogno si è avverato. Ad “Ercolino” brillano ancora gli occhi quando parla di quell’avvenimento e di quei suoi piccoli amici incontrati in un reparto della sofferenza dove si combatte ogni giorno, con successi e sconfitte, per vincere sulla morte.
Il Giubileo della Misericordia vissuto dal circo, dallo spettacolo viaggiante e popolare, si è arricchito anche di questa esperienza che ha toccato il cuore di tutti e dato forma plastica alle parole pronunciate da papa Francesco ma riprese da San Giovanni Paolo II: l’arte circense può «far nascere il sorriso di un bambino e illuminare per un istante lo sguardo disperato di una persona sola, e, attraverso lo spettacolo e la festa, rendere gli uomini più vicini gli uni agli altri».
Nella missione del clown dottore Leris Colombaioni, far nascere il sorriso di un bambino è diventata una ragione di vita. Forse la sua principale ragione di vita. E così quando è venuto a sapere dal presidente Buccioni che papa Francesco avrebbe concesso un’Udienza straordinaria al mondo del circo e che avrebbe potuto invitare tutti i suoi piccoli e grandi amici incontrati al Bambin Gesù, ha avuto la sensazione che un disegno più grande stesse prendendo forma.
“L’incontro col papa è sempre emozionante per tutti, ma per chi vive la malattia e per di più in forma grave è anche una forte iniezione di speranza”, dice Leris. “Davanti all’invito del presidente Buccioni non ho minimamente pensato all’occasione di essere dal papa come artista, ma invece come clown dottore insieme ai “miei” bambini. Così ho subito informato le famiglie ed ho iniziato a darmi da fare perché l’evento potesse essere vissuto nel modo più pieno per loro, chiedendo al Pontificio Consiglio dei Migranti che ai bambini venisse concesso di entrare in Vaticano col pullman fino al luogo dell’Udienza, per venire incontro alle loro condizioni di salute, che fossero davanti al papa e che lo potessero salutare di persona”. Alla fine tutto è andato al posto giusto. Anche il naso da clown donato a Francesco: “Gli ho detto: Santità i bambini mi hanno chiesto di domandarle se una volta se lo metterà, quando vorrà lei…. E il pontefice mi ha risposto: Certo, lo metterò”. Racconta Leris che “per i bambini e le famiglie è stata una gioia immensa. Usciti dall’Udienza con papa Francesco i nostri sguardi parlavano, gli occhi dicevano tutto, non c’era bisogno di pronunciare parole”. Ercolino non gonfia il petto, però. Per lui non è stato un risultato personale da considerare come una medaglia appuntata sul petto. “Io non ho fatto niente”, ripete. Da molti anni ormai mette a disposizione quel che sa fare, il clown, e un po’ (per la verità parecchio) del suo tempo per gli altri.
“Ho cominciato a fare il clown dottore per caso all’Ospedale “Molinette” di Torino. Ricordo che la Proloco aveva organizzato questo passaggio dei clown nei reparti. In precedenza avevo visitato qualche altra struttura”. Siamo negli anni 70 (quando muove i primi passi anche Patch Adams) e dunque agli inizi di questa insolita e colorata presenza all’interno degli ospedali, che poi diventerà famosa ed anche un po’ abusata negli anni recenti, pensando che sia sufficiente indossare un naso rosso per diffondere la cosiddetta “clownterapia”.
Ricorda Leris che “ai primi tempi negli ospedali non ci vedevano di buon occhio”. Che ci fanno dei clown in un luogo di cura? “Ma hanno fatto presto a ricredersi scoprendo la forza miracolosa del sorriso”. Dai reparti meno impegnativi, Colombaioni comincia a varcare quelli di oncologia: “E’ stata da subito una esperienza forte, che ti segna e ti fa guardare con una luce diversa anche al tuo essere artista e clown”. Un esempio. “La madre di un bambino mi chiese se avessi una fotografia da autografare, che mi immortalava col figlio degente, molto piccolo, in oncologia. Domani gliela porto, le risposi. All’epoca occorreva un po’ di tempo per sviluppare le fotografie, sta di fatto che arrivai con la foto l’indomani mattina e incontrai la mamma che mi ringraziò per la fotografia e poi mi disse: ci ha lasciato…. Il volto di quella mamma non l’ho più dimenticato, è lo stesso di tutte le mamme che perdono un figlio di pochi anni in un reparto oncologico. E lì ho riflettuto: perché ho aspettato l’indomani? E io in tutti questi anni cosa ho fatto?” Dopo Torino ha continuato soprattutto negli ospedali di Roma, fino ai nostri giorni, anche perché ha stabilito anche la sua attività artistica nel Lazio. E attualmente si “sdoppia” fra la sede “dell’ospedale del papa” (così viene anche chiamato il Bambin Gesù) del Gianicolo e quella di Palidoro, per le quali l’Ente Nazionale Circhi, grazie all’interessamento di Leris Colombaioni, ha donato televisori e stereo destinati alla Casa Ronald McDonald che ospita piccoli degenti e famiglie in cura, ed ha contribuito all’evento finalizzato alla raccolta fondi per l’acquisto di una Tac.
Quante volte ha indossato il naso rosso e il camice bianco Leris Colombaioni? Non si contano. Quante volte ha fatto ridere e quante volte ha pianto? “Quando mi capita di andare a salutare un bambino o una bambina che se ne sono andati, mi dirigo all’obitorio ed entrando mi sembra di camminare in un asilo delle anime, di ascoltare le loro voci, le parole che ci siamo scambiati… sono vivi nella mia mente e anche se alcuni li ho incontrati per pochi momenti in realtà li ho conosciuti per sempre”. Leris Colombaioni viene da una importantissima famiglia di clown, che ha avuto anche ruoli di primo piano nel cinema, si pensi solo alla lunga collaborazione con Federico Fellini. “Penso di avere assorbito in famiglia una certa educazione alla gratuità”, spiega Leris. “Negli anni di
Canzonissima o di altri programmi di larga presa popolare, col circo si lavorava quattro giorni la settimana per non accavallarsi inutilmente con una “concorrenza” che non lasciava scampo, e così nelle serate libere io prendevo il motorino e andavo ad aiutare da mio zio o davo una mano dove c’era bisogno”. Realizza anche stage di clownerie e di clown dottori ne ha formati parecchi. “A questi ultimi cerco di spiegare che il nostro compito è quello di regalare il sorriso, rendere più lieve la malattia, distogliere dalla sofferenza”.
C’è ancora tempo per ascoltare un pensiero che a Leris Colombaioni sta molto a cuore: “I clown oggi li vediamo ovunque, ma non si vede quasi più il clown vero e proprio, il clown classico nato e vissuto nel circo. E credo che una delle ragioni di un certo disinnamoramento verso i circhi sia proprio da ricercare nell’indebolimento del loro cuore pulsante, il clown. Nel circo dovrebbe avvenire una sorta di rieducazione a proposito del clown perché si sono perse le basi della clownerie. Bisognerebbe chiamare a raccolta gli ultimi superstiti, i vecchi clown sparsi nel mondo, e mettersi alla loro scuola”.
Leris apre l’album delle fotografie di famiglia e quello che ha raccontato fino a questo momento prende forma. C’è il papà “Nani” (Arnaldo) con tanti altri colleghi di scena, ci sono le intramontabili entrate
comiche. E si capisce ancora meglio perché Leris Colombaioni sia un signor dottor clown. Che il naso rosso deve disegnarselo sulla mascherina che indossa per poter essere più vicino ai suoi amici di corsia, ma anche così l’espressione del clown resta in tutto il suo fascino. “Ai circensi vorrei dire che sono importanti i risultati professionali ma che le grandi prestazioni artistiche, i “numeri” da guinness, i bilici nuovi fiammanti e gli chapiteau ultimo grido, non danno nemmeno una centesima parte di quello che regala la condivisione e il dono gratuito di un sorriso, specialmente a chi è malato. E’ questa la nobile funzione del circo, e guai se ci dimenticassimo delle nostre radici e dei nostri valori di solidarietà e generosità. Nessun circense credo non abbia un’ora, anche in un intero anno, per entrare in un ospedale e con gratuità mettersi a disposizione del direttore sanitario”.
L’articolo è stato pubblicato sulla rivista Circo giugno 2016