di Maria Vittoria Vittori
Le storie potentissime di Miloud Oukili e Patch Adams, due personaggi fondamentali nella storia del circo sociale, sono state capaci di ispirare le persone e diffondere in tutto il mondo realtà che coniugano arte e attenzione agli ultimi. Una di queste è la rete creata da Pagliacce che con la giocoleria e la clownerie entra in comunicazione con le situazioni più difficili e ai margini della società.
Ci sono persone che compiono scelte in grado di cambiare tanto i destini individuali quanto la mentalità collettiva. È questo il caso di Miloud Oukili e di Patch Adams. Quando Oukili, clown franco-algerino girovago per vocazione e per scelta, ha deciso di fermarsi a Bucarest per prestare aiuto a quei bambini abbandonati che vivevano nei sotterranei della metropolitana e, soprattutto, per inventarsi qualcosa di buono per loro, non ha cambiato soltanto la sua vita e quella di questi bambini, ma ha creato qualcosa di inedito e potente, che ancora oggi ci è d’ispirazione. Questo è l’atto di nascita del circo sociale, delle discipline circensi che escono dalla pista e si riversano dove c’è più bisogno di loro: nei territori dell’emarginazione, del disagio, dell’esclusione sociale, della reclusione. Agli ospedali ci ha pensato il dottor Hunter Doherty Adams, meglio conosciuto come il dottor Patch, portando l’inatteso sollievo e l’energia creativa della clownerie nei luoghi maggiormente contrassegnati dalla sofferenza fisica e psichica. Nel tempo nuove forme di circo sociale sono state ideate e si sono intrecciate tra loro, entrando in reti e associazioni sempre più stratificate e produttive. Per questo, volendo raccontare alcune recenti forme di circo sociale, mi è venuto spontaneo cercarle all’interno di una rete, e precisamente Pagliacce, il network nato tre anni fa per iniziativa delle clown Silvia Laniado e Martina Soragna, che raccoglie 120 artiste. Una rete associativa che mette in circolo idee e iniziative, organizza ogni anno a Torino il festival internazionale Pagliacce, promuove la tutela dei diritti delle artiste e costituisce un dinamico laboratorio di progettazione e di esperienze condivise. Tra queste, le esperienze di circo sociale sono le più diffuse e significative, come si ha modo di scoprire attraverso la storia dei percorsi di queste artiste.
La giocoleria che include
Formatasi alla Scuola di Arti circensi e teatrali di Maurizio Accattato, Roberta Paolini, che nasce come clown con il personaggio della Supercasalinga, ma è anche esperta di giocoleria, acrobatica ed equilibrismo, ha al suo attivo dodici anni di lavoro nel carcere minorile Cesare Beccaria di Milano.
“L’obiettivo fondamentale era utilizzare le discipline circensi per costruire una relazione con i ragazzi, alcuni dei quali erano talmente arrabbiati con il mondo intero da non riuscire ad aprirsi, né a mettersi in gioco. Ma con il passare del tempo, la relazione evolveva d’incontro in incontro, soprattutto laddove si riusciva a trovare il punto di forza del ragazzo, la sua abilità. E quando alcuni hanno partecipato a spettacoli organizzati all’interno del carcere, è stato davvero toccante percepire le loro emozioni, quella possibilità di essere visti non come i duri, i cattivi, ma nella loro parte umana, anche di vulnerabilità.”
Molto diversa, ma ugualmente potente sul piano relazionale, l’esperienza negli ospedali pediatrici, dove si lavora nella stanza del paziente e nel rispetto di tutti gli accorgimenti igienico-sanitari. “Attraverso gli esercizi di giocoleria, studiati su misura del singolo bambino, si cerca di costruire un momento di condivisione, il ricordo positivo di un obiettivo raggiunto”. Proprio per effetto di queste molteplici esperienze, che comprendono anche la collaborazione con una comunità terapeutica residenziale di neuropsichiatria per adolescenti, Roberta è pienamente convinta che le discipline circensi siano terapeutiche in quanto capaci di incidere sul nostro umore e quindi sul nostro benessere. “L’impegno e la concentrazione ci distraggono da noi stessi, facendoci uscire dal loop della quotidianità. Il raggiungimento di un piccolo obiettivo ci gratifica e fa aumentare la nostra autostima”. Quella che lei mette in pratica nel suo lavoro -sia che si svolga in un ospedale, in un carcere, o in una comunità- è la giocoleria funzionale. “Quel tipo di giocoleria che dà a tutti, anche a persone con difficoltà fisiche, cognitive, comportamentali, la possibilità di partecipare. La giocoleria realmente inclusiva.”
Dalla comicità alla relazione
È questo il titolo della tesi con cui Alessandra Pierattelli si è laureata nel 2008 in Discipline Teatrali presso l’Università degli Studi di Milano, ma potrebbe anche essere la sigla più efficace delle sue molteplici esperienze nel campo della clownerie educativa. Esperienze iniziate con il tirocinio presso la Fondazione Parada, a Bucarest, spinta dal desiderio di conoscere da vicino questa realtà: “Il lavoro che Oukili ha fatto è stato prima di tutto un lavoro d’umanità. Quello che ha cambiato l’esistenza di tanti bambini è stato vedere una persona che aveva scelto di dedicarsi alla loro umanità, prima ancora che alle loro capacità.” Da Bucarest alla profonda periferia milanese: insieme al suo collega clown Roberto Pansardi, tiene laboratori di clownerie e arti circensi nei cortili dei palazzi popolari, esperienza difficile ma istruttiva nata all’interno della Cooperativa Diapason e riportata nel libro Il giardino dei fiori d’asfalto (Terre di mezzo, 2011) che è la storia, raccontata senza filtri, di come, in un contesto di disagio e di emarginazione, possano nascere relazioni inaspettate. Ora Alessandra lavora per la Fondazione Dottor Sorriso, con interventi di clownerie presso la Sacra Famiglia e Il Seme, istituti che ospitano bambini con gravi disabilità fisiche e cognitive.
“Mettiamo in scena fiabe narrate in cui possono intervenire. Questi bambini hanno un fortissimo senso della comicità, per ragioni di sopravvivenza, credo, e vedere un clown che interagisce con loro in modo buffo li spinge ad avvicinarsi, a ripetere quello che fa. Penso che le persone fragili si sentano sempre sole, anche se non sono in grado di dirlo. La solitudine è anche il motivo per cui in queste persone non si verifica un cambiamento. Ma quanto più si sentono cercate, amate, tanto più interagiscono”.
A questa attività ormai consolidata, Alessandra affianca il suo lavoro teatrale all’interno della compagnia Pane e Mate che da anni, ispirandosi ogni volta a un testo classico da reinterpretare, offre a un pubblico di tutte le età l’esperienza di immersione totale in una realtà d’invenzione.
Clownerie senza frontiere
L’esperienza di Miloud Oukili è stata d’ispirazione anche per Giorgia Dell’Uomo, artista del trio The Clown Angels. Da studentessa di Conservazione e restauro dei beni culturali che già frequentava un corso di formazione per clown, ha cambiato decisamente direzione, iscrivendosi alla facoltà di Scienze della formazione, per seguire poi un progetto di circo sociale in Romania. “Ho potuto osservare con i miei occhi la potenza del clown, capace di mettere in relazione, di risolvere conflitti, di fare della diversità un punto di forza”. Nel 2011 Giorgia, che nel frattempo si è diplomata presso l’Atelier di Teatro Fisico di Philip Radice, dove attualmente insegna, è entrata a far parte dell’associazione Educatori senza frontiere.
“Ed è qui che ho avuto l’opportunità di sperimentare ancora di più come il circo e il clown possano essere degli strumenti educativi potenti. Nel 2014 in Honduras ho lavorato con i ragazzi di una comunità di recupero per tossicodipendenti. Abbiamo creato un piccolo spettacolo e siamo partiti in carovana, portando lo spettacolo in scuole, orfanotrofi, centri di accoglienza, centri per donne vittime di violenza. Molti di loro venivano da contesti familiari e sociali difficili, molti di loro erano stati quei bambini che incontravamo nei centri a cui approdavamo. Alcuni di loro erano stati quelli che avevano trattato le donne come oggetti. Ma dopo ogni spettacolo ognuno di loro ringraziava le persone presenti per essere stato utile, importante, anche solo se per poco”.
Nel 2018 l’esperienza viene replicata in Italia, in collaborazione con la Fondazione Exodus, nella comunità di recupero per tossicodipendenti di Milano.
“É stata un’esperienza più difficile, perché i ragazzi della comunità erano più restii, eppure sentire che il pubblico rideva e si emozionava con loro li rendeva felici. Anche solo per 40 minuti, potevano essere altro e potevano riscrivere la loro storia”.
Alla ricerca del clown che è in te
Davvero particolare la storia di Claudia Cantone: a vent’anni entra nella Polizia di Stato e dopo 17 anni di servizio, cambia radicalmente la sua vita “ per cercare il naso rosso”. Una storia costellata di incontr i- Jango Edwards, Gardi Hutter, Virginia Imaz- raccontata nel documentario Fools of live. Autrice e interprete, con il nome d’arte di Yaya Clown, di diversi spettacoli, insegna recitazione e clownerie nel carcere di Rebibbia, e precisamente nell’Istituto a custodia attenuata per il trattamento delle tossicodipendenze. Non è facile introdurre la clownerie in un contesto così complesso, ma Claudia procede per gradi: “bisogna creare degli esercizi specifici e prima di tutto insegnare una respirazione ritmata, calma, di cosciente accettazione. Si vive quel momento presente, senza agire. E poi si inizia a camminare, con le braccia aperte, con la piena consapevolezza del movimento. Così si apre la strada alle emozioni che prima erano nascoste e bloccate. Le emozioni si comportano come una fisarmonica che si espande e si contrae e il clown sa come suonare questo strumento”. La forza del clown sta dunque in questa sua capacità? “Il clown è potente perché ci mette davanti a noi stessi e al mondo. Possiamo reagire in due modi: utilizzando le nostre ferite interiori per fare satira sulla società, come un buffone di corte, o accettando ciò che si vive, senza giudizio, riscoprendo l’innocenza. Le emozioni sono fondamentali per l’intensità e il ritmo della sua performance”. È proprio qui che s’intravede il varco di un possibile cambiamento. “Il clown è la maschera che permette di sperimentare, di guardarsi veramente, di raccontare le cose all’altro come a sé stessi. Le emozioni si sbloccano, e permettono così la nascita di relazioni autentiche”.