Quella che segue è la trascrizione dell’intervento pronunciato da Alessandro Meluzzi alla conferenza stampa promossa dall’Ente Nazionale Circhi che si è svolta il 17 ottobre alla Camera dei Deputati (dove sono intervenuti anche Vittorio Sgarbi, Antonio Buccioni, Carlo Giovanardi, Maurizio Chiesa); il testo non è stato rivisto dal prof. Meluzzi e mantiene la forma del linguaggio parlato.
Ho accettato molto volentieri l’invito ad essere qui con voi non soltanto perché condivido molte delle posizioni del senatore Giovanardi e per la stima e la simpatia che mi uniscono a Vittorio Sgarbi, ma anche perché credo che la questione dell’animalismo, al di là degli aspetti surreali che Sgarbi ha posto in luce con la sua insuperabile capacità descrittiva, contenga anche delle problematiche maledettamente serie che riguardano non soltanto gli animali e i circhi, ma il senso stesso di cos’è l’umano, quindi qualcosa che ci riguarda molto da vicino, perché l’animalismo è una filosofia complessa che contiene in sé una rappresentazione del mondo che pare innocua ma non lo è, e cercherò di spiegarne le ragioni.
Un grande studioso di scuola anglicana, diventato cattolico negli ultimi anni della sua vita, Gilbert Keith Chesterton, diceva che verrà un giorno in cui per dire che le foglie sono verdi di primavera e le pietre sono grigie, bisognerà brandire la spada. Cioè per introdurre dei normali distinguo che servono a rendere la vita umana pienamente umana, bisognerà far diventare tema di una contesa, ideologica, politica, culturale, persino una cosa che ci appare ovvia.
Anche il rapporto fra uomo e animali appare ovvio: è un rapporto di coevoluzione, gli uomini e gli animali sono coevoluti insieme nella storia del pianeta e dei sistemi biologici. Purtroppo o per fortuna soltanto lo 0,4% del Dna in termini genetici ci divide da uno scimpanzé pigmeo (e secondo me qualcuno anche di meno). Facciamo parte di un unico fenomeno della vita nel quale le specie, come dicono gli ecologisti, dipendono tutte l’una dall’altra. In questo quadro di evoluzione ad ogni essere vivente è stato dato un proprio ruolo nell’economia del creato, dal Creatore per chi ci crede o dall’evoluzione naturale per chi non crede in un Dio persona.
L’animalismo non è un fatto neutro perché contiene un’idea, in sé singolare e sostenuta con molto vigore, che le specie viventi siano tutte intercambiabili ed equivalenti tra di loro. Quindi la morte di un animale è uguale alla morte di un uomo, i diritti di un animale sono uguali ai diritti di un uomo, non ci sono distinzioni, sia gli uomini che gli animali soffrono, quindi non c’è ragione di negare agli animali dei diritti che già da molto tempo sono garantiti agli uomini e che magari non lo erano neppure agli uomini, e qualsiasi aggressione nei confronti di tutto ciò che è vitale, equivale alla aggressione a qualsiasi cosa che è umana.
Questa intercambiabilità dei viventi – e qui esprimo una convinzione personale, forse non condivisa da molti dei presenti ma che io credo fortemente fondata – questa cultura dell’indistinto, è frutto non tanto della espulsione dell’uomo dalla scena della riflessione filosofica, antropologica e psicologica, ma della espulsione di Dio. L’assenza di quel Dio, citato in Genesi 1-3 come creatore e fonte di ogni verità, che dice all’uomo “io ti do il potere su tutto il creato”, e innanzitutto il potere di dare un nome alle cose che vuol dire dare un senso alle cose stesse.
Gli animali sono evoluti naturalmente ma anche culturalmente. E’ infatti vero che il cavallo nel Pleistocene percorreva le praterie galoppando liberamente, ma da quando il cavallo ha iniziato a riprodursi insieme agli assembramenti umani, è diventato tema della cavalcatura, così come il cane è talmente coevoluto insieme all’uomo che oggi non si può nemmeno pensare al cane selvatico perché sono diventate talmente embricate la storia della specie canis e quella della specie Homo sapiens che le due specie camminano parallelamente e quindi il dare un nome da parte dell’uomo a tutte le cose non è affatto indicatore di una tirannia sul creato.
Io non mi spingo a dire che la coscienza è un fenomeno esclusivamente umano – e questa è una argomentazione forte degli animalisti, i quali ragionano così: se una creatura è cosciente, come può essere cosciente un cane, per quale ragione accettare che un cane venga soppresso con l’eutanasia e un uomo no? La traslazione di questo concetto è che bisogna riservare agli uomini la stessa sorte che i veterinari riservano ai cani quando soffrono troppo, infatti non si vuole estendere la medicina umana agli animali ma la medicina veterinaria agli uomini e questa è una delle conseguenze filosofiche dell’animalismo.
L’animalismo sembra una filosofia innocua, pacifista, non violenta, mentre diventa tema di una violenza estrema sull’umano. Come io dico sempre: quando in una famiglia non c’è Dio al primo posto, niente è a posto.
L’animalismo non vuole portare gli animali ad una legge di cultura ma ridurre gli uomini alla legge animale.
Quando io ero bambino c’era uno zoo a Torino (poi quando si è iniziato a discutere degli zoo sono stati chiusi, perché le argomentazioni dei più stupidi sono sempre più forti per il principio della prevalenza del cretino, essendo il disordine più probabile dell’ordine, è chiaro che la stupidità in termini statistici prevale) negli anni 50 dove mia mamma mi portava. C’era scritto: “lo zoo è l’unico posto dove gli animali selvatici possono vedere l’uomo da vicino senza essere uccisi”. Pensate come era diversa la cultura e dunque come la cultura cambia ed evolve.
La ‘caccia al circo’ portata dall’animalismo è l’espressione di una cultura dell’indistinto che, equiparando l’uomo all’animale, tende a delle forzature, che nel caso dei circhi sono inquietanti dal punto di vista estetico, culturale, sociale, del buonsenso e della logica; e siccome la logica è un’etica del pensiero, come l’etica è una logica del comportamento, bisogna difendere i circhi per difendere non soltanto la cultura, la bellezza, la tradizione, l’identità, ma anche un corretto ordine della creazione.
Fra parentesi, io sono tra coloro che pensano che la Catalogna abbia gravemente sbagliato ad abolire la corrida, uno spettacolo sicuramente cruento per chi lo vede, ma chi conosce la corrida sa bene che il toro nell’arena ha qualche chance e qualche occasione di morire attivamente in più di quanto non ne abbia in un macello, dove viene ucciso nel terrore con una scarica elettrica in mezzo alla testa.
La natura è dura e crudele tanto in libertà quanto nella vita artificiale ma gli animalisti utilizzano in modo patologico una visione disneyana della realtà, vedono in un cane il cartone animato del cane, in un cavallo il cartone animato del cavallo, non hanno nessuna competenza etologica specifica e neanche una capacità di distinguo rispetto a ciò che analizzano; per la verità anche Disney viene deformato perché seppure nel modo caricaturale, antropomorfico e umanizzato dei cartoni animati, alcuni di questi colgono – pensate ad un film come “Il re leone” – perlomeno il tema della catena alimentare.
La visione sacrale e rispettosa degli animali non l’hanno inventata gli animalisti ma fa parte delle tradizioni umane più arcaiche; quando nelle grotte di Lascaux e Altamira guardiamo le scene di caccia raffigurate in modo rituale, vediamo la coevoluzione tra uomo e animale ma non nella stupidità di confondere le cose e i piani tra di loro.
E’ vero che gli animalisti citano sempre San Francesco come il patrono di qualsiasi forma di animalismo, ma San Francesco non era mica panteista e nemmeno portatore di uno sciamanesimo della stupidità, ma considerava nel Cantico delle Creature la natura sacrale non solo dei viventi ma anche dei non viventi (Laudato si’, mi’ Signore, per sora aqua, frate foco…) cose che diversamente da cani, gatti, delfini e leoni, non hanno occhi, facce, narici.
Il contrario di tutto questo è l’idolatria: trasformare l’animale in un idolo vuol dire non soltanto fare un atto sommamente pagano ma anche sommamente stupido, perché tutto questo si traduce nel perdere di vista la centralità dell’uomo. Nel caso del circo la cosa è grave, nel caso della sperimentazione dei farmaci è ancora più grave perché negare che ci possa essere una fase della sperimentazione di un farmaco che coinvolge gli animali, vuol dire accettare il principio che la sperimentazione di secondo livello venga fatta direttamente sull’uomo, con effetti che non si possono prevedere; è infatti vero che i modelli matematici e le coltura cellulari un po’ servono, ma è anche vero che soprattutto per quel che riguarda la teratogenesi (pensate al talidomide ad esempio) e la cardiotossicità di certi chemioterapici, non si può non passare attraverso il modello sperimentale animale, salvo decidere che devono essere degli uomini volontari a fare questa parte.
Allora capite che l’animalismo non è un atteggiamento innocuo ma soprattutto è una cultura dell’indistinto e finisce per far perdere di vista alcune cose ovvie. Chi propone un animalismo vegano dovrebbe cominciare a portare scarpe di plastica, dovrebbe liberare qualsiasi animale domestico, dovrebbe evitare di mangiare la pasta col parmigiano e così via; è di tutta evidenza che questo modo di ragionare diventa immediatamente psicotico e delirante perché si potrebbe sostenere che così come non si possono mangiare cibi animali, non c’è ragione di non pensare che le piante non siano creature senzienti: cosa pensa la spiga di grano mentre viene falciata, cosa pensa il seme di frumento mentre viene pestato, cosa pensa la foglia d’insalata mentre viene tagliata; l’estensione di questo ragionamento della vita umana e delle qualità della vita umana a qualsiasi forma vivente ci conduce a dei paradossi, che le grandi religioni sono capaci di portare sotto controllo, ma che la stupidità fa diventare delle verità apodittiche e ipostatiche.
Ricordo che durante un mio viaggio in Tibet vidi delle monache di un monastero buddista che prendevano dei lombrichi lungo una strada fangosa su cui passavano dei carri trainati da yak, e con dei bastoncini li prelevavano e li portavano su un prato. Di fronte all’obiezione che queste monache si nutrivano di carne di yak e bevevano il te con il burro salato di yak, le suore buddiste mi hanno candidamente risposto che quello che loro facevano era un gesto pedagogico, che serviva a ricordare agli uomini la pietà verso tutte le creature senzienti, ma che questo non significava prendere alla lettera quello che sarebbe accaduto, non fosse altro perché quei lombrichi portati dal fango al prato sarebbero stati beccati da un uccello prima di quanto non sarebbe successo se fossero rimasti nel fango. Quello che l’animalismo perde di vista è invece il senso delle cose, e prende alla lettera alcune affermazioni: gli animali sentono il dolore, hanno una forma di coscienza, bisogna estendere a tutto il mondo animale gli stessi diritti dell’umano… Ma in realtà gli animalisti non estendono alcun diritto del mondo umano al mondo animale e in compenso riducono il mondo umano a un mondo animale e questa è la prospettiva in cui tutte le filosofie della stupidità, come lo sono state tutte le filosofie totalitarie – e l’animalismo è una filosofia totalitaria – ci conducono. Come diceva giustamente San Tommaso d’Aquino, l’amore è amare ogni cosa iuxta propria principia: amare le pietre da pietre, le piante da piante, gli animali da animali, l’uomo da uomo e Dio da Dio.
Dio lo abbiamo già escluso, purtroppo, non tutti ma molti lo hanno già escluso, ma se cominciamo ad amare le pietre come se fossero Dio, le piante come se fossero animali e soprattutto se ameremo l’uomo come amiamo le foglie d’Elba, credo che per l’umanità non ci sarà un grande futuro.
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