di Maria Vittoria Vittori
Maria Vittoria Vittori, giornalista e critica letteraria, collaboratrice di Leggendaria, L’Indice dei libri del mese, Il Mattino di Napoli. Da tempo attenta esploratrice della maniera in cui l’arte circensi ispira opere di varia natura: libri, film, video, persino campagne pubblicitarie, riordina gli spunti e le motivazioni che l’hanno guidata nel suo lungo e felice viaggio. Un viaggio senza una meta precisa ma il cui risultato appare chiaro.
Il mio viaggio nel mondo di chi realizza il circo e di chi lo racconta e se ne nutre è iniziato parecchi anni fa proprio sulle pagine di questa rivista, “Circo”, che aveva allora cadenza mensile.Appassionata in ugual misura di letteratura e di circo, e con l’esperienza alle spalle di un libro come Il clown futurista che indagava sui rapporti, in verità assai proficui, tra le arti circensi e le avanguardie del primo Novecento, in special modo il futurismo, avevo proposto ad Alessandro Serena una rubrica dal titolo Storie in pista dedicata all’analisi di romanzi d’ambientazione circense. E che poi, con il titolo Circo/stanze, si è allargata anche a comprendere altri fenomeni culturali. Qualche anno dopo, nel 2012, ci sarebbe stata l’esperienza dello speciale Donne al circo – dedicato ad artiste e imprenditrici, narratrici e filosofe che nel circo hanno lavorato e tratto materia d’ispirazione – che, curato da me e Serena in collaborazione con il CEDAC, è comparso all’interno della rivista culturale “Leggendaria” diretta da Anna Maria Crispino. Stava infatti emergendo in modo sempre più visibile una strana analogia: proprio come era accaduto all’inizio del Novecento con le avanguardie storiche, in quei primi anni Duemila che introducevano anche a un nuovo millennio, il mondo circense – che pure attraversava un periodo per molti aspetti complicato e difficile – stava di nuovo esercitando una grande attrazione. Ma stavolta non limitata soltanto al campo artistico e letterario, bensì estesa anche a livello sociale, dando vita a un fenomeno che in più di qualche occasione ho avuto modo di definire “circo diffuso”. Discipline circensi come la giocoleria e l’acrobazia venivano applicate in chiave formativa nell’educazione di adolescenti problematici o in situazioni di disagio e rischio sociale, e quella ch’era stata la straordinaria esperienza di “Parada”, quasi inconcepibile senza il suo fondatore Miloud Oukili, diveniva un insieme di pratiche educative messe in atto nella quotidianità dei sobborghi metropolitani e delle periferie del mondo. Dell’arte clownesca si valorizzava sempre di più la possibile valenza terapeutica, soprattutto a beneficio dei più piccoli, come insegnava il dottor Hunter “Patch” Adams, e dunque quelle che all’inizio erano state sporadiche irruzioni in corsia diventavano un appuntamento atteso e irrinunciabile. E ancora: elementi di cultura e di spettacolo circensi si stavano infiltrando in maniera sempre più intensa e pervasiva nella musica, nella fotografia, nel cinema, nei videoclip, nelle performance dei protagonisti della scena pop, e si affacciavano anche sul mondo della fitness, con le varie forme di ginnastica acrobatica, e della moda, con la creazione di outfit e accessori fascinosamente ibridi. E tornando alla letteratura, c’era davvero l’imbarazzo della scelta: autori e autrici provenienti dai più disparati paesi-dagli Stati Uniti alla Francia, da Cuba alla Romania, dal Messico allo Stato d’Israele, dal Perù all’Inghilterra- convergevano nel loro intenso, divorante interesse verso le figure e la cultura del circo, il retroterra simbolico della pista.
Immergendomi in queste storie dapprima con la felicità incondizionata della lettrice, e poi distanziandomene attraverso la prospettiva critica, iniziavo gradualmente a mettere a fuoco con maggior precisione alcuni elementi che caratterizzavano il nuovo rapporto tra scrittori e artisti circensi, non più a senso unico come era accaduto agli inizi della modernità, bensì profondamente reciproco. Tracy Chevalier l’aveva illustrato in maniera memorabile nel suo romanzo L’innocenza (2006), inscenando l’immaginaria conversazione tra Philip Astley, il cavallerizzo visionario che inventò un nuovo modo di far spettacolo e William Blake, il poeta visionario che inventò un nuovo modo di far poesia: conversazione appassionata in cui entrambi, con pari dignità, si riconoscono “fabbricanti di illusioni”. Il primo elemento importante di questo nuovo rapporto mi sembrava consistere nel desiderio, e anzi nel bisogno di una libertà al tempo stesso individuale e collettiva, interiore e politica, che molti scrittori proiettavano nei loro personaggi e che proprio nell’ambito della comunità multietnica e multiculturale del circo veniva a trovare una sorta di approdo. Ambientare le storie nel mondo del circo poteva ubbidire anche a un desiderio da parte dell’autore o dell’autrice di far interagire i propri codici rappresentativi con quelli caratterizzanti le arti circensi, mettendo in atto una radicale sperimentazione espressiva. O ancora: le arti circensi, con la loro capacità di suscitare diverse e contrastanti emozioni collettive – dallo stupore alla tensione, dalla commozione al riso -, con la loro speciale prerogativa di trasformare il sogno dell’impossibile, mediante il rigoroso esercizio quotidiano, in ricerca del possibile, pongono una serie di questioni molto interessanti su cui soffermarsi, al confine tra psicologia, filosofia e politica.
E un’altra caratteristica mi colpiva moltissimo: il fatto che tutti questi percorsi, che a volte si allontanavano parecchio dal plot narrativo, venivano poi ad intrecciarsi tra loro, mettendo in luce inaspettate affinità, creando nuovi agglomerati di senso. Così, anche se all’inizio poteva occupare un posto marginale nelle vicende narrate, la pista finiva col diventare il luogo della trama vera e propria, intesa come catalizzatore e intreccio di desideri, sentimenti e motivazioni. Ha così preso forma, in modo graduale quanto progressivo e inarrestabile, il progetto di raccogliere e analizzare le storie sul circo e intorno al circo che mi sembravano maggiormente significative: storie di attraversamento dei confini tra le arti e di scavalcamento delle convenzioni, storie in cui la pista diventa un luogo di possibile liberazione. Ed è per questo che il libro, edito da Iacobelli nella collana Workshop, ha preso il titolo di La rivoluzione in pista. Diverse incarnazioni di libertà si dispiegano infatti nella pista, che sia reale o raccontata. La libertà di movimento e di realizzazione per le donne alla fine dell’Ottocento, quando cavallerizze e acrobate costituivano con le loro esibizioni la più efficace smentita di stereotipi e pregiudizi sulla debolezza fisica e psicologica femminile. Al punto che una scrittrice come Contessa Lara poteva far valere la propria irriducibile refrattarietà alle convenzioni sociali del tempo identificandosi in una cavallerizza. La libertà dall’oppressione politica e dalla corrotta pervasività del potere, come mostra efficacemente lo scrittore cubano Eliseo Alberto, in fuga dalla dittatura di Fidel Castro, che attraverso i componenti e le avventurose vicende del circo Arena Cinque Stelle, racconta la storia della sua famiglia di artisti e intellettuali impegnata a costruire un nuovo futuro per Cuba.
La libertà dall’alienazione e dall’esclusione sociale, come racconta la figura del vagabondo Charlot, modello di riferimento per molti artisti e filosofi che non si riconoscevano nella società in cui vivevano o che vennero costretti all’esilio. La libertà dai pregiudizi, dalle categorie sociali e dalle categorizzazioni ideologiche, dalle barriere della classe e del genere sessuale, così desiderata da Angela Carter e realizzata nel suo romanzo Notti al circo. La libertà di immaginazione e di scoperta per gli adolescenti alla ricerca di sé stessi, che siano d’invenzione come Faith, la protagonista del romanzo di Amanda Davis, o in carne e ossa come Luca Alghisi. Piccolo inciso riferito all’attualità: incredibile il numero di ragazze e di ragazzi che frequentano scuole di circo, laboratori di clownerie, atelier di teatro fisico: segno evidente di un desiderio di mettersi integralmente alla prova in ambiti tra loro connessi e inclusivi. Di questa libertà di poter essere ciò che si desidera essere, e del circo come luogo in cui mettersi alla prova per poterla realizzare, Moira Orfei è stata da sempre l’emblema più significativo e popolare, e dunque la raccolta di storie intorno alla rivoluzione in pista non poteva che chiudersi nel suo segno.Tralasciando le pur lusinghiere recensioni su riviste e pagine culturali, che cosa mi ha rallegrato di più, nelle diverse presentazioni e nella ricezione di questo saggio? L’atteggiamento di felice sorpresa di molte persone, quasi avessero scoperto che in quella pista frequentata forse solo da bambini c’era tutto un mondo culturale da esplorare; le domande, interessanti, spesso inaspettate; le segnalazioni, da parte di persone appartenenti ai più disparati ambiti culturali, di storie che non conoscevo, riferite al circo. Ma questo non mi ha sorpreso, perché una cosa mi è stata subito chiara, a libro appena concluso: che il mondo del circo, e tutto ciò che da lì parte e lì nei modi più disparati ritorna, è un’area talmente ricca, ibrida e fertile-e tanto più fertile proprio perché è ibrida-da lasciare molti più interrogativi insoddisfatti che risposte; è un territorio talmente pieno di paesaggi e passaggi culturali ancora in gran parte inesplorati da spingere a ricercare ancora e ancora, con sempre rinnovato piacere. Prendo in prestito il titolo del magnifico libro del semiologo Paul Bouissac che all’inizio degli anni Ottanta ha segnato un deciso cambiamento di prospettive, Circo e Cultura, per apportarvi, ora che i tempi sono cambiati, una piccola, necessaria modifica: Circo è Cultura.